25 ottobre 2008

con te




Quanto vi corsi qui tra le viole e i papaveri, quanto vi piansi di sbucciature e corse spente, primi bollori di lotte dure, a terra tra i piccoli serpenti, gli occhi a sera che bruciavano di polvere e vento.
La bicicletta mi scarrozzava ovunque, veloce con le nuvole in cielo di panna montata illuminate fino a sera inoltrata.
Quanto vi corsi in questo spiazzo di sale, eppure adesso non mi ci rigiro neanche.
Cresce una casa nel giro di una stagione e i grilli dei campi non cantano più, mi devo sempre più inoltrare tra pannocchie mature per sentire l'umore che il sole fa sprigionare alla terra, per sentire i suoi abitanti vivere e saltare, cantando alla luna un cicaleccio vacuo e remoto eppure a me così usuale, così normale, che senza non vivo e mi fa male.
Perchè mi viene in rima non lo saprei dire, ma certo c'entrano l'acqua del ruscello e gli attrezzi nel fienile del nonno, la sua canottiera smangiata, le braccia magre e nervose, i tendini vivi e quei suoi muscoli attenti. La toeletta alla sera, il suo deodorante pesante, la riga di lato, il riporto contro il buco dai capelli lasciato, capo levato.
Ma stare in mezzo, stare in mezzo sempre, non levarsi: bere vino e accontentarsi, delle amicizie parenti, vicine, convenienti, perchè quando si è soli, si sta come cani senza rimorsi e senza ritorni, e con tanti padroni.
Sarà per tutto questo che stasera mi viene un poco di rima, per allontanare la fatica di ricordare, il masso macigno che dopo essere lacrima, diventa ghigno.
Dove stavano i grilli e i loro salti, stava anche il pallone nelle nostre mani, incollato ai piedi, il sudore, la lotta, la sfida e la rivolta agli orari ristretti di genitori apprensivi che anche ad agosto ci volevano chini, a casa, magari a studiare, perchè la disciplina era il loro dovere, e il loro modo di volerci bene.
Ma noi lo sapevamo, per questo potevamo ignorarla ogni tanto quella signora scontrosa, che ci veniva a cercare, e se non ci trovava si appostava più tardi dietro alle porte, e se ne perdevi il passo erano botte.
E giocavamo, giocavamo tanto.
Perchè giocare era una cosa seria, altro che grandi. Giocare era vivere dieci volte, più impegnati, concentrati. Ti esponevi e ti rivelavi e nel gioco capivi, significava valere per quel che si era, e quel che si era in fondo si riduceva ad una sola cosa: l'onore, e da qui non si scappa, l'onore c'è o non c'è.
O si era forti e coraggiosi o malandrini e mediocri.
E non si scappava, l'onore era tutto, e nel gioco lo potevi capire chi ci aveva la stoffa, e chi di servire.
Ma la cosa che si capiva poi subito dopo era che l'onore non aiutava, non arricchiva di risultati e vittorie, al contrario era un fardello, un macigno pesante, come avere la testa troppo pensante mentre si tira un rigore. Si sbaglia per forza di troppo volere.
Se succedeva qualcosa, una cosa qualsiasi, si era subito interpellati noi dell'onore con l'onore e per l'onore, e spesso senza colpa investiti dell'altrui responsabilità che apriva le spalle le faceva più grandi, capaci di portare la fatica nascente di un ruolo, e un poco le piegava come ali sforzate da un vento contrario ed imponente, come fatica crescente.
Disciplina, rigore, codice scritto, quel che dovevi era rigar dritto.
E tutto il resto? Le divagazioni, le storte, le bruciature, le risate curiose, le paure?
La compassione e la voracità vitale, possibile dovesse finire prima di cominciare?
E tutto per un capriccio, una capriola violenta, che rigirata, nel suo esserci, assenta.
Il profumo di un fiore e l'ape che lì vi si insinua hanno a che fare con la regola scritta?
Mi giurarono di sì, me lo dissero più volte che persino il vento fosse costretto da queste voglie, ma io davvero non lo credetti mai, lui si leva e si cheta, non si contenta, non dorme, lui non si adagia su schemi e forme.
Il vento, e il cielo mi hanno educato, forse fui libero come un guerriero, Achille mi chiamavano ed io ero fiero.
E poi mi ricordo certi azzurri di cielo, nelle pitture generose e possenti di chiesette campagnole, sui nostri percorsi accidentati dopo acquazzoni, tutti bagnati, erano quelli di certe giornate sgombre di fine aprile quando sembra di intuire l'inizio di quel che deve venire.
E correre, e saltare, con tutto questo negli occhi e nel cuore, con solo questo e crederlo sole; credendo che il mondo non sia altro che il brivido prima del salto: di queste case, chiese, campi ed aiuole; giochi, vento, compagni ed onore; stelle, luna, e qualche dolore.
E poi come si fa ad accettarlo, come si fa ad accettare di vedere tutto questo così sconfitto, così ristretto, ridefinito: tutto il mio mondo così avvilito.
Sono cresciuto tutto in una notte.
Tutto in una notte, veloce e sudato, un malandato mal di capo, torcicollo che non ti permette di togliere sguardo, dal tuo presente che ti sembra lontano...
sono cresciuto tutto in una notte, scoscesa, di percorsi fallaci quando vidi una panchina per quello che era. E l'anima fatua della sera, che ci riuniva e la falsità di una scintilla negli occhi: “cos'altro vuoi perchè io ti tocchi?”
tu ridi, ma fa freddo e nemmeno questo pungente profumo che amiamo può farci amici in questa notte di fine novembre, in cui le stelle ci parlano da dietro le nubi, ma ascoltarle è impossibile, fioca è, troppo fioca, la loro voce, come la tua luce damina d'amianto, che se ti tocco non è mai schianto.
Io non reggo alla vista di questo squallore, davvero lo temo, deprivazione di tanto amore, sperato, presentito, desiderato.
Onore di un dovere, dover arrivare, poter dimostrare quanto si vale, non solo a parole, del valore occorso, di una fatica attenta di un passo lento, maledetto che mi ha sempre fregato, me che bruciai di fretta congenita, di un'intensità fugace; io fui mite piuttosto e veloce, poco incisivo forse, di certo atroce.
Ma mia sorella? Per lei sono tornato? Dov'è la timorosa, la bambina piagnucolosa?
La mia donna di ferro, dove riposa?
Non ditemi qui, dove tanto io risi.
Cara i tuoi pianti li ho recisi, come fiori di campo per far tornare un conto, non so se la regola è stata seguita, ma certo l'ho fatto per ripulir la memoria e dare a te una nuova storia.
Ti racconterò perciò sorellina, racconterò la mia vicenda ruberò l'oro dai miei giorni per impreziosire la tua eco. Ruberò l'infelicità delle giornate spente e la tingerò di porpora lucente, e così farò corona a questo campo.
Vivrai sorellina dell'inutilità stanca di certe giornate, ma con me vedrai miriadi di particolari vividi.
Vivrai sorellina come non hai mai saputo, perchè tu giaci e riposi nello spazio e nella terra dove giocai e vociai la battaglia, facendo prove generali di tempesta.
Vivrai con me, nei miei giorni e nei ritorni, nel racconto dei dintorni dove sta la grande storia, sarai con me sempre, unita in vivida memoria, la buccia e la scoria di un desiderare, lì dove spenderai oziose parole, l'azione, l'amore, al posto mio e insieme a me, donna di ferro sarò lì con te.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bello, brava, mi ha emozionato.


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