13 febbraio 2008

al fondo

arrivare al fondo e sentire crollare come una resistenza, una pesante patina di dolore nel tonfo sordo dell'armatura, caduta è cristallo di mille pezzi puntuti che bucano gli occhi, come spilli le attese, le paure, le ansie e le sconfitte, il male e la fame, la lontananza e la distanza, l'impotenza e la sua rabbia. sentirle crollare al suolo malandate e nude, aborrire il loro orrore che punge cercando di farci del male, del passato, del dolore subito.
e subito trovarsi esposti ad un nuovo giorno con la luce che illumina una pelle densa come un frutto maturo, giovane, vitale, una pelle che non sa lasciarsi guidare.

Ritrovarsi nudi in pieno giorno,
con davanti due occhi guardinghi
che scrutano accarezzando voracemente, delicatamente.
Lasciarsi cullare da quelle onde, volontà supine di dominio.

Lasciami andare mi fa tremare, il tuo sguardo benevolo è accecante e così non posso difendere il male languente presente e invisibile.
Ma lui. Lei. che non fa differenza. Con una doppia voce distorta diceva rimani rimani alla gogna, ragazza mia non può che farti bene. Non può che farti bere. La gogna è per pochi attimi, ma servono, la gioventù serve a questo.

Non ti giudicare
Non ti giudicare
Non ti giudicare
Urlava intanto un angelo castrato,
rammendato al cranio rasato.

E io scomparivo,
scomparivo e perivo
Mentre infierivano le fiere nere, fiele, il grigio ululava alla luna guaiti di sfortuna.

Un gatto nero attraversava la stanza e offuscava la lampada gemente.
Di tutta quella gente nessuno suonava il liuto.
E io che avevo fiuto. Volevo svegliarmi e andare. Ma me ne trattenevano dal restare.
E sbraitavano che ero fuori tempo.

E io tenevo il ritmo insistente, come un tamburo battente
Della mia armatura inesistente
Ma ancora del tutto presente.

E urlavano non ti far del male per l’amor del Cielo, nero.
Lascia la peste al mondo intero, ma di questo male saziati e alzati.
E io che non volevo capire cieca e sola, con la mia distorta andatura zoppa, calcagno radente, mi sono alzata fischiando sguaiatamente.
Li ho insultati con la grazia di un mio cenno, senza un ripensamento, l’assoluto a cui anelo.
Ho insultato il fango santo, la merda latente, e nera che voleva rendermi padrona della mia notte.

Ora mi vergogno di questo sole. Di questa “santa verità”.
La partita non è perduta, ma è vinta a metà.

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