29 febbraio 2008

Il sogno di Elizabeth

sono ancora qui.
l'umido alle pareti pare avermi tutta riempita, foderata, dentro sono esausta, umida quasi bagnata.
verde palude si è fatta la palpebra, alghe macilente, gialle come le foglie cadute in pozzanghera formano le mie interiora, le viscere calde sono lacustri e io spettro ancora in vita solo in attesa di sole.
non ho altre parole:
levate l'ancora, è ora.
anche sola, è ora.


Elizabeth,
non si può troppo vento, a poppa e a prua.
la nave sta immobile, e la nebbia pare sia calata come un sipario a celare oltre il quale nulla si può vedere.
e niente di buono sperare.

ma io devo andare, adesso.
proprio perchè c'è vento.

la nebbia e il vento contemporaneamente!
è un prodigio infausto.

levate l'ancora, è ora.
non lo ripeterò ancora.

ma il sovrano di Francia
soffre, per voi, il ranocchio amato.
pensate a lui quando esponete la vita
a Pentecoste

io non conosco ranocchio nè sovrano
in Francia
c'è solo ferraglia agghiacciante.
un suono languente, il richiamo di una donna
distante da me. e a me vicina.
con un cappello rosso ciligia calcato in testa
guarda tutti di sotto in sù
con un'aria furbetta pare che menta
ma è rosmarino la sua verità.
una verità grigia di nebbia mattutina
che sbuffa ironia come un treno che svolta.
Alice la chiamano,
e lei poi si volta.

Elizabeth, cara, voi delirate.
treno?
what is tre no?

non abbiate di me pietà nè compassione
io vedo nel fondo del pozzo
sopra la luna,
mentre voi... la tangente che unisce i due punti vi confonde ancora.
non sono più la vostra signora.
sono acqua, anzi no, sono melma
sono l'alga che si appoltiglia
sono fanghiglia.
disprezzatemi perciò come vile fango.
di questo non ebbi mai alcun rimpianto.

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