20 marzo 2008

Velazquez_Goya


VELAZQUEZ



Osservando i rispettivi crocifissi di Velazquez e Goya a distanza di quasi 150 anni si nota un netto cambio di prospettiva e sensibilità relativi alla sacra rappresentazione del martirio di Cristo.
Se in Velazquez la figura perfetta di Gesù è di ascendenza classica, oserei dire “marmorea michelangiolesca” anche se più contrita; in Goya subentra un roseo colorito morbidamente umano.
L’ideale di bellezza del Velazquez è forgiato sulla materia prima di marmi antichi, rispecchianti il valore di perfezione morale. L’astratezza di questo Cristo si esprime nell’incarnato che irradia una luce, bianca, asettica, già ultraterrena.
La morte livida lascia posto ad un chiarore che sbianca purificando la mortale forma.
Il capo reclinato dà adito della vittoria di Cristo, che Figlio obbediente accetta il destino a lui riservato dal progetto dell’Eterno Padre, per la redenzione nostra.
Cristo per Velazquez è un ideale che viene illuminato e a sua volta irradia luce ultraterrena, che rischiara ogni dubbio esistenziale con l’umile purezza del suo sacrificio.
In Goya no. In Goya già la luce ci parla di un calore tutto umano, l’oro che effluvia dal corpo del Salvatore è rosato, beatificato ma ancora umano e vivo; è la morbidezza della pelle giovane, levigata, poco contrastata, non ancora compromessa dal dolore purificante.
È carne viva, bella, sana che ci chiede: chiede il perché di un sacrificio immenso, umanamente folle.
Si leva questo Cristo del 1780; leva una supplica, un grido, una domanda tutta umana in alto dove altro non vede se non assenza, buio, morte, cieco dolore.
Sarà per questo che i suoi piedi sono inchiodati in una dimensione tutta orizzontale, un blocco quadrato dove la croce si arresta, particolare che aggiunge presenza terrena al Cristo che è Dio, ma anche uomo.
In Velazquez, la plasticità e bellezza corporea sono medium di un messaggio morale; questa bellezza rigata di sangue, sofferenza vissuta, è una bellezza per la croce: gli arti sono tesi nella tensione, nello spasmo della trazione esercitata dai chiodi su tendini e nervi.
In Goya la morbidezza carnale ha la meglio e seppur questo Cristo, agnello mansueto, ha solo simbolici segni di martirio, fa male il vederlo. Non c’è traccia di sangue, ma ci turba la vista di questa figura armoniosa, calda, sulla croce, nel supplizio più estremo.
Goya fa male, Velazquez incoraggia.
Goya innamora, Velazquez incanta, con bellezza fredda, ma vivificante: nel coraggio della Volontà che giunge alle estreme conseguenze del proprio destino.
Goya non crede nel destino, crede nel giorno, in questo uomo che nella sua classicità rilassata dedica la sua vita, carne e sangue, ad un ideale ma con gli occhi rivolti al cielo, in attesa, perché lui non ha che il suo giorno.
Lui non sa, ma ama. E per questo spera.

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